Articolo sul Corriere Innovazione del 9 gennaio 2015
IL DIBATTITO
Contro il pessimismo indefinito: possiamo essere hub d'innovazione
Siamo nell'età d'oro del venture capital. Ma non in Italia. Perché? Mancano cultura d'impresa e dell'investimento. Serve un'operazione che dia valore al capitale umano
Si è creato un bel dibattito attorno alla pubblicazione del’articolo «Start-Up Slowdowns» su Foreign Affairs, organo dell’antico think-tank nuovayorkese Council for Foreign Relations (CFR), che rappresenta in non plus ultra del vecchio establishment economico-politico americano che è giocoforza, very East Coast. Riassumendo, l’autore Robert Litan sostiene che dagli anni 1970 vi è stato un decremento delle startup in America, e che dunque il paese sotto sotto non può più gloriarsi di essere un hub dell’innovazione tecno-economica globale. Federico Rampini ne ha derivato un pezzo aggiungendoci l'aroma di tipico pessimismo italiano, al punto che Repubblica titola «Non ci sono più i geni nel garage». L’innovazione, insomma, comincia a essere dipinta con tinte fosche. A questo dibattito vorrei partecipare anche io, per offrire, come si dice negli Usa, «my 50 cents».
Va detto, innanzitutto, che pare illogico parlare di una diminuzione delle startup negli ultimi 40 anni. Perché c’è il dubbio che Litan abbia computato per startup ogni possibile azienda aperta da un ventenne, ivi inclusi negozi di alimentari, tabaccherie, agenzie di viaggi, filiali di assicurazioni etc. Certo vi è stato, come dice l’autore, un calo demografico e l’ascesa di mega-colossi semi-monopolistici à la Apple e Google che propongono a molti talenti condizioni di assunzione talmente interessanti da toglierli dalla startup arena. Tuttavia, asserire che questo inverno 2014 corrisponda all’inizio di un era glaciale per le startup mi è parso, da subito, un enorme controsenso, che odora molto di quello che Peter Thiel nel suo libro Zero To One chiama «Pessimismo Indefinito».
L’anno appena chiuso in futuro sarà considerato come l’età dell’oro del Venture Capital. Il Venture Capital, secondo gli studi di Pitchbook, ha raccolto qualcosa come 44.7 miliardi di dollari - l’anno prima erano «appena» 26.8. Il New York Times rileva che le IPO hanno toccato la cifra incredibili di 250 miliardi di dollari: rispetto al 2013, 40 aziende in più si sono quotate, raccogliendo il 36% di danaro in più. Le exit delle tech company di Israele - che ha meno abitanti del Nord Est ed un Pil inferiore - hanno raggiunto i 6,94 miliardi di dollari. Il fondo saudita Alkhabeer sta preparando la sua unità di VC. La Cina crea il suo sistema VC e, grazie a Jack Ma di Alibaba, cerca perfino di ricreare una Silicon Valley ad Hangzhou, e lo stesso vuole fare il governo in Corea del Sud. Il Giappone dispone di diversi fondi, anche statali, per le startup. In India una società di e-commerce come Flipkart riceve finanziamenti per 1,7 miliardi di dollari in pochi mesi. I fondi di venture capital a Nuova York hanno elargito 4,4 miliardi di dollari; 1.4 a Londra, 1.1 a Berlino. Il mercato Vc è talmente prospero che analisti hanno notato che quotarsi in borsa per una azienda non è più imperativo, in quanto può ottenere finanziamenti non dissimili da semplici round di investimento.
Perfino il crowdfunding diventa un serio strumento economico, con Kickstarter che distribuisce fondi per 529 milioni di dollari. Business Insider ritiene che gli investimenti VC abbiano raggiunto i livelli della prima era dotcom: pochi però credono che vi sia una bolla. Tutto questo mentre le aziende tecnologiche e i loro personaggi hanno sbancato perfino il nostro immaginario: gli uomini della Silicon Valley costruiscono auto elettriche, auto che si guidano da sole, razzi superstratosferici, occhiali per la realtà aumentata, occhiali per la realtà virtuale, lenti a contatto per i diabetici, perfino programmi - se non sono PR stunts - per utilizzare gli asteroidi come miniere. Soprattutto, questi personaggi e i loro progetti emanano un mito di prosperità motivata - la ricchezza come conseguenza di un business intelligente e scientificamente rilevante - che ha fatto breccia in tutti noi. «Una volta tutti volevano andare a Los Angeles a fare gli attori del cinema», mi ha detto un investitore californiano, «oggi invece vogliono andare a San Francisco e aprire una startup». Quindi, come sia possibile, vedere negativamente il mondo dell’innovazione nel 2015, mi pare davvero grottesco
E all’Italia cosa manca per poter divenire un hub dell'innovazione? A prima vista sembra che manchi in maniera drammatica è il lubrificante, l’acqua in cui possono nuotare i pesci dello stagno: mancano i fondi di Venture Capital. Senza di esso, nessun ecosistema è possibile. Ma l'assenza di Venture Capital è causa o effetto? In Italia il danaro per il Venture Capital non manca. Per esempio, abbondano, anche sottotraccia, quei rich individuals possessori di fortune cospicue che costituiscono la base per molti fondi VC americani. Sappiamo poi come, senza scomodare i nababbi, il risparmio collettivo in Italia ammonta ad un ammasso di danaro tale - circa 8 trilioni di euro - che anche se decidissimo di pagare in toto il mitico debito pubblico di 2,1 trilioni, dovremmo trovare qualcosa da fare per i 5-6 trilioni restanti. Credo che gli investimenti di Venture Capital in Italia siano scarsi principalmente per due motivi: non vi è una percezione collettiva per cui è lucrativo - e antropologicamente corretto - finanziare lo sviluppo di una tech company locale che crea posti di lavoro e permette un avanzamento della conoscenza umana; vi è una carenza di cultura d'impresa. La sfida, per far crescere l’ecosistema dell’innovazione in Italia, è di fornire ai tecnologi delle salde basi di imprenditorialità, senza le quali di fatto non possono essere destinatari di alcuna forma di finanziamento. Di qui, il ruolo fondamentale che devono avere incubatori e acceleratori, in accordo sempre più stretto con le Università italiane e i loro dipartimenti di ricerca. Abbiamo bisogno di una operazione culturale che dia valore al capitale umano - oltre che al capitale finanziario - di cui il nostro paese è forse inconsapevolmente ricco. Il Paese tutto ha bisogno di un'iniezione di fiducia, abbiamo bisogno di una cultura che spinga l’economia verso l’innovazione, la ricerca, il futuro, in pratica di quello che Peter Thiel chiama «Ottimismo Definito», che è purtroppo assente dagli orizzonti italiani odierni.
*Founder di M31
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