dal Corriere Innovazione del 21 febbraio 21015
«Il futuro della ricerca è nelle mani degli imprenditori illuminati»
Bisogna «innovare l'innovazione»: ciò che l'età industriale ha separato, l'età della conoscenza può riunire. Altrimenti i costi di transazione dalla scienza all'imprenditorialità rischiano di aumentare ancora
di Piero Formica e Ruggero Frezza
Per l'economia si profilano scenari grigi a lungo termine suscettibili di volgere al rosa solo con un'innovazione che rompa i legami con lo stato dell'arte esistente. È in questa situazione che si è portati ad alzare lo sguardo verso quello che gli inglesi chiamano Blue Skies Research («ricerca dei cieli blu»), ossia quella ricerca scientifica senza apparente applicazione reale. La memoria va a Faraday. Alla domanda che gli fu rivolta su cosa servisse la sua scoperta in campo elettrico, l'illustre scienziato britannico rispose di non saperlo, ma che un giorno il governo avrebbe applicato una tassa sul suo utilizzo. Quei cieli ci appartengono, dicono le università, che hanno guidato il sapere umano per mille anni. Tuttavia nel terzo millennio in cui siamo appena entrati a quel firmamento volgono lo sguardo le nuove forme organizzative della scienza, dell'innovazione e dell'imprenditorialità. Attori nuovi, ulteriori rispetto al vecchio dominio delle università. Le quali parimenti devono tornare a scrutare – pena la loro estinzione, o meglio, la loro disruption – quella medesima volta celeste, e magari cercare di fornirne l'astrolabio.
Nel secondo dopoguerra, più occupazione e più produttività hanno accelerato il ritmo dell'economia, creando crescita e prosperità. Oggi, a scala mondiale, la rapida crescita di allora corre il serio pericolo di rallentare considerevolmente a causa del declino della popolazione in età lavorativa. Secondo uno studio dal McKinsey Global Institute «la diminuzione della quota di popolazione in età lavorativa comporta una diminuzione del 19% della crescita del reddito pro capite nel corso dei prossimi 50 anni». Questi sono segni premonitori della necessità di un cambiamento epocale nella struttura dell'economia. Come sosteneva John Maynard Keynes, «dobbiamo inventare una nuova saggezza per una nuova età». La prossima età dell'abbondanza corrisponde, come ricordava l'acclamato economista di Cambridge citando un suo grande collega americano, John Rogers Commons, alla massima espansione della libertà individuale.
Questa nuova prosperità si manifesterà solo «innovando l'innovazione», ossia imbastendo una salda relazione tra innovazione scientifica e innovazione imprenditoriale. Urge dunque una ridefinizione dei modelli organizzativi di quell'innovazione trainata dalle scoperte scientifiche, come pure di modelli imprenditoriali di business attinti dal bacino della scienza. Una ridefinizione che non può che vedere in prima fila i protagonisti della scienza e dell'innovazione assurti al ruolo, più che mai centrale in questo quadro economico, di creatori di imprese. Il modello di trasferimento tecnologico dalla ricerca universitaria al mondo commerciale messo a punto da Isis Innovation – l'impresa di trasferimento tecnologico dell'Università di Oxford – sotto la direzione del dr. Tim Cook ha fatto scuola nel mondo. L'incontro tra due culture così diverse - la cultura accademica e quella del business – l'Isis lo ha realizzato mettendo in campo quelli che Cook ha chiamato multi linguists, «multilinguisti»: intermediari capaci di comprendere le due culture.
La sfida che abbiamo davanti è quella di incentivare la creazione di nuovi operatori che agiscano sulla cultura dei multilinguisti. E questo sia nel mondo accademico, sia in quello delle imprese: serve, in pratica, un tipo d’innovazione che possa permettere ai multilinguisti di divenire imprenditori. Questi «ricercatori multilinguisti», questi «imprenditori scientifici» sono il motore della crescita dell’impresa basata sulla conoscenza. Quindi, della crescita dell'economia, quindi della società tutta. Costoro formano la forza motrice del progresso economico odierno, così come la forza motrice della crescita della società industriale è stata l’imprenditorialità inaugurata da operai e tecnici nel corso delle rivoluzioni industriali dell'Ottocento e del Novecento. Ciò che l'età industriale ha separato – distinguendo la ricerca e l'imprenditorialità come due culture differenti – questa nostra età della conoscenza può (più che stimolare una blanda interazione) fondere, sia nel linguaggio che nelle iniziative. I segni già sono visibili: guardiamo nei laboratori di sperimentazione ospitati da imprese globali. Guardiamo in quei laboratori di ricerca in cui gli scienziati si avvalgono dell’apporto dei multilinguisti. A costoro, i blue skies della scienza proprio non sono estranei. Dal momento che essi si nutrono di quella ricerca nata dalla curiosità e priva di un chiaro obiettivo, tra i loro intendimenti c'è quello di sostenerla con donazioni, risorse umane (e cioè personale in mobilità lungo le due corsie della ricerca e della ricerca applicata), e finanche risorse monetarie estratte dalla detassazione di una quota dei profitti – sempre che la politica fiscale dello Stato sia così lungimirante da premiare l'impegno e la visione a lungo termine degli imprenditori multilinguisti.
Un loro impegno diretto avrebbe peraltro il vantaggio di potenziare la ricerca di base salvandola da quelle pastoie burocratiche causate sia dal labirinto delle norme governative, sia da talune consorterie universitarie. Intanto, la forza di gravità della tradizione è tale da impedire di prendere il volo a codesta «innovazione dell’innovazione». Tradizione vuol dire stabilizzazione dell'economia, ancoraggio a quel terreno occupato dagli interessi particolari che la lunga lista stilata da Keynes attribuiva a «associazioni, corporazioni, unioni, e altri movimenti collettivi di industriali, mercanti, lavoratori, agricoltori e banchieri». Dentro tale cornice non possono che lievitare – come peraltro stiamo costatando da diverso tempo – i costi di transazione nel passaggio dalla scienza all'innovazione e da questa all'imprenditorialità. Soprattutto considerando che l'intervento governativo (il quale ha destinato sempre più risorse al processo di trasferimento lungo la catena scienza-innovazione-imprenditorialità) è perennemente pressato dall'azione lobbistica degli intermediari di fondi pubblici, agenzie governative, public-private partnership e puri operatori privati – tutti impegnati, ciascuno per sé o in azioni concertate con altri, a perseguire i propri interessi particolari tramite rendite di posizione conquistate come intermediari dei fondi, e cioè parassiti della catena alimentare, piccoli buchi neri che inghiottono parte della luce dell'ecosistema.
Basti osservare quanto è vasto nell'Unione Europea il campo occupato da parchi scientifici e tecnologici, centri d’innovazione, incubatori d'impresa e altre organismi che intercettano le risorse messe a disposizione dalla Commissione europea. Non di fondi comunitari vive il futuro dell'innovazione, ma di conoscenza. E degli sforzi, dei sacrifici di chi saprà farsene traduttore materiale.
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